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Stop ai sottodomini?

Il vostro sito personale è del tipo www.pippo.dominio.it? Attenzione, c’è chi l’ha brevettato e sta iniziando a chiedere il pagamento delle licenze. Viaggio nel mondo delle rivendicazioni più sconcertanti della storia dell’hi-tech.

di Nicola D’Agostino

Porta la data dell’ottobre 2001 un brevetto concesso dall’Uspto (US Patent Office) statunitense all’azienda Ideaflood e dal titolo “Metodo e apparato per la conduzione di domain name service”.

Dietro alla lunga descrizione si cela una concessione che Ideaflood in questi giorni sta usando per rivendicare diritti e proporre licenze a chiunque faccia uso di sottodomini (ad es. sottodominio.dominio.paese), a partire da numerosi provider d’oltreoceano.

Il brevetto per la precisione si riferisce alla “procedura automatizzata di trasferimento di servizi di nome di dominio di Internet da un affidatario a un amministratore del dominio” e cioé alla creazione e assegnazione di sottodomini ad utenti. Si tratta però di una pratica standard in Rete (pensiamo allo spazio concesso gratuitamente dai provider italiani come Supereva), con una casistica che risale sino alla metà degli anni ‘90 (e a cui si pensa di fare appello in fase legale) e che sta suscitando vive polemiche e proteste in quanto vista come assurda e antitetica rispetto al funzionamento stesso dei domini Internet.

Il brevetto concesso ad Ideaflood non è però un caso isolato ma purtroppo solo l’ultimo capitolo di una lunga serie di vicende che hanno visto negli ultimi anni nomi noti e meno noti aggiudicarsi o reclamare come propri concetti e tecnologie chiave e date per assodate dell’Information Technology.

Nel 2003 molto si è parlato (anche in tribunale) del brevetto della Eolas che coprirebbe plug-in e applet e che ha visto coinvolta la Microsoft, con paladini d’eccezione quali Tim Berners Lee. Lo stesso anno la Acacia Technologies Group ha dato battaglia (e incassato soldi da organizzazioni come la Disney) forte dei suoi brevetti sullo streaming mentre risale invece al 2000 la lotta di British Telecom con Prodigy per gli iperlink, lotta che è terminata due anni dopo con la sconfitta dell’operatore britannico.

Altri casi clamorosi hanno visto la comparsa di un brevetto sulla “rappresentazione di un’immagine grafica in una pagina web tramite l’uso di una versione in miniatura” con conseguenti problemi per servizi come Google Images, il sito di aste online eBay dover fare fronte ad una causa da 35 milioni di dollari intentata da MercExchange per l’uso dell’opzione “buy it now” (“compralo ora”) o, più recentemente, la Soverain Software, denunciare il colosso dello shopping on line Amazon o ancora la nordamericana Postini e l’uso di filtri sulla posta elettronica.

La frenetica e spregiudicata tendenza a “registrare tutto il registrabile” arriva fino alle parole di uso comune. La situazione è ben esplicata dalle mosse, tra le altre, di Apple che ha all’attivo brevetti su tecnologie di mouse, di illuminazione dei computer e dell’interfaccia del suo riproduttore iPod, ultime di una lunga serie che risale sino al 1976 o dai contestati brevetti di Microsoft sui desktop virtuali e sui mouse con lo scrolling o dalla sua lunga, cruenta e tuttora irrisolta lotta con Lindows per il termine “windows”.

Il rischio sempre più incombente di questo meccanismo è quello di peggiorare e danneggiare lo sviluppo tecnologico tant’è che da più parti si invoca una riforma del sistema di assegnazione di licenze e brevetti e del controllo sugli stessi. Una novità che, secondo gli osservatori più critici, potrebbe essere sgradita non solo alle aziende ma anche agli stessi uffici del brevetto ed agli esperti legali, che allo stato attuale delle cose, traggono vantaggi economici non indifferenti dalla situazione attuale.

Articolo originariamente pubblicato su Mytech.it