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Perché Jobs non vuole il DRM

Jobs ed Apple si possono permettere di criticare le protezioni perché non ne hanno bisogno, a differenza degli avversari.

di Nicola D’Agostino

È il quadro che emerge da varie affermazioni e dati di queste settimane, che confermano una Apple le cui fortune musicali effettivamente non sarebbero basate sull’acquisto da parte degli utenti di tanta (?) musica protetta su iTunes.

Se il cosiddetto “lock-in” c’è davvero è più probabile che verta invece sull’iPod e sul mondo di accessori e gadget che vi ruota attorno su cui consumatori (e aziende) hanno investito molto.
Oppure che il “trucco” sia nell’accoppiata con iTunes e come Apple riesca a far funzionare bene e in modo trasparente la gestione PC-player della musica digitale, protezioni incluse. Leander Kahney nella sua rubrica Cult Of Mac sottolinea come nella storia delle protezioni l’uso da parte di Apple di Fairplay sia “notevolmente liberale, facile da usare e affidabile” e gli utenti non abbiano efettivamente protestato più di tanto. Tutto il contrario di quanto accade con il “Plays For Sure” di Microsoft, che l’ha addirittura tenuto fuori dal proprio riproduttore Zune.

Uno scenario ancora più ardito è quello che vede Jobs interessato a far sparire il DRM per mettere i bastoni tra le ruote di Napster ed altri servizi che vertono sull’abbonamento. Almeno inizialmente Apple perderebbe la “fiducia” delle major (ma avrebbe la disponibilità di CDBaby, che già da tempo rifornisce di musica aperta il numero due del mercato, Emusic) ma delegittimando il DRM smonterebbe il business di diversi avversari, che si basa tutto sul pagamento da parte degli “abbonati” di una quota per poter sbloccare l’ascolto della propria libreria musicale.

Articolo originariamente pubblicato su Mytech.it