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Massimo Giacon a Bilbolbul 2012

Trascrizione di “La quarta necessità – Povera patria”, con il disegnatore Massimo Giacon (presentato da Alberto Sebastiani), tenutosi venerdì 2 marzo 2012 presso Mel Bookstore a Bologna durante il festival fumettistico Bilbolbul.

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Io non sono entrato più di tanto nella sceneggiatura. Anzi [questa storia] è stata scritta in maniera abbastanza anomala per un fumetto, perché io mano a mano che andavo avanti, ogni dieci pagine ricevevo le pagine della sceneggiatura di Daniele [Luttazzi]. Quindi non sapevo come sarebbe andata a finire. […] Mano a mano che venivano a me delle idee grafiche a lui venivano delle idee su come continuare la storia. Quindi è stato abbastanza faticoso non avere un quadro generale… […] una maniera di lavorare abbastanza difficile anche se lui era estremamente pignolo nella sceneggiatura e in quello che voleva. Poi a me venivano delle idee grafiche e lui diceva “Ah, bellissimo! Adesso lo sviluppiamo in questo modo!”. È stato proprio un lavoro a quattro mani.

Al di là di questo [“La quarta necessità”] è una storia che […] uno la legge e poi si aspetta chissà che [e dice] “Mah, questo personaggio poi alla fine non è così mostruoso”. Non è mostruoso perché alla fine è molto banale la sua storia, la sua vita. Questa storia qui è condita da tutte quante le classiche battute alla Luttazzi: fulminanti, a volte ci sono battute surreali, però alla fine la storia è molto lineare e secondo me non è una metafora… non è il caso di tirare fuori la storia dlela metafora berlusconiana […] o il fatto che si insista molto sul sesso all’interno del libro. E tutti quanti che dicono “Ah, beh: Berlusconi, bunga-bunga…”. È una cosa riduttiva. […] A parte il fatto che secondo me Berlusconi e bunga-bunga dovrebbero ormai essere due parole vietate. Per legge non dovrebbero essere più pronunciate. Soprattutto bunga-bunga. Basta. Soprattutto abbinato al sesso, che ti fa passare la voglia di fare sesso. […]

Il libro è un libro che in effetti parla della situazione italiana e parla di quanto questa situazione drammatica è intrisa di banalità, quasi di inevitabilità. La banalità dell’uomo (???), no? Ed è alla fine fatta di piccole cose. Il nostro personaggio non è che fa delle cose terribili. Va beh, a un certo punto quand’è piccolo ammazza un cane… quand’è ancora più piccolo vede sua zia che viene violentata dai nazisti… e a chi non è successo? Son delle cose normali [risate] di tutti i giorni. […] In realtà sono tutte cose che fatte con un’altra mano e scritte da un’altra persona possono definirsi le “scene madri” all’interno di una storia. Invece nel nostro libro sono considerate quasi come una normale, che passa e scivola via.

[…] È vero, c’è molto sesso. Ma alla fine anche questo un po’ ti scivola via. […] Ci sono ben due bestemmie all’interno del libro, cosa per cui quelli di Rizzoli erano preoccupati. È una delle ragioni per cui alla fine siamo riusciti a far passare il libro però incellofanato. Non tanto per il sesso ma quanto per le bestemmie. […] Ci siamo impuntati tutti e due, perché ci avevano detto “Non potete cambiare in ‘orcoddue’?” [risate] “O porcozzio?” [E noi] “No”. Perché c’è anche una questione dal punto di vista linguistico nei confronti di quello che è il linguaggio letterario e quello che è il linguaggio all’interno del fumetto. E non capisco, anzi, non capiamo perché continuiamo a menarla sul fatto che il fumetto ha la stessa dignità della letteratura però quando in un fumetto che esce per Rizzoli, ci metti una bestemmia che tralaltro è perfettamente contestualizzata. Non è che poi il personaggio che bestemmia la dice così perché a noi ci piaceva a quel punto dire “Haha! Guarda, abbiamo messo anche questo!” ma è contestualizzato all’interno della storia. In letteratura lo fai, mentre invece nel fumetto no. Comunque vuol dire che già di partenza, anche tu che sei Rizzoli Libri… gli abbiamo fatto un discorso di questo tipo e loro hanno capitolato e […] forse hanno sia capito che noi non avremmo ceduto su una cosa del genere come anche che era [un uso] giustificato. Che poi tralaltro la gente non è che si adombra per niente. Io mi rendo conto che non solo all’ainterno del fumetto ma anche nell’arte tu puoi fare tutto: la gente non reagisce più. In termini di provocazione, hanno molto più paura le persone che poi devono far vedere le cose che le persone [che le fanno]. Io quando ho fatto la prima presentazione del libro [a Lucca], c’era solo una signora. C’eravamo io e Luca Raffaelli che a un certo punto abbiamo detto “Signora, ma lei lo sa che questo libro contiene sesso anale, che contiene bestemmie… che contiene attacchi alla religione, ecc.?” E lei: “Embeh? E allora? Lo compro. Se mi darà fastidio vuol dire che smetterò di leggerlo”. Era una persona normale. Una signora, di sessant’anni, che aveva una visione molto sana… Cioé, sento bestemmiare in giro. Non è che non esiste. Non è che se non la metti nei libri… si cancella.

[…] [“Amami”] Non è piaciuto a nessuno dei giornali femminili. Che poi […] è piaciuto invece molto alle ragazze e alle donne. Noi abbiamo ancora ragazze, persone, amiche, che ci scrivono dicendo “Oh, guarda, ho trovato quel libro lì e mi è piaciuto molto”. Ma […] “Amami”, siccome [era con] Tiziano Scarpa, che è uno scrittore molto stimato, era andato in mano alla redazione di “D Donna” di Repubblica […] hanno detto “Ah, sì, sì, sì, facciamo l’anteprima, anzi pubblichiamo quattro pagine!” poi l’hanno aperto, l’hanno sfogliato e hanno detto “No, grazie”. Probabilmente erano finiti nella pagina in cui c’era un prete che si inchiodava l’uccello, e quella era la cosa minore che accadeva all’interno di “Amami” […] E noi ci siamo rimasti un po’ male perché, insomma, c’erano tante altre parti di quel libro che potevano essere pubblicate tranquillamente. C’è stata subito da parte della redazione di “D Donna” una repulsione totale. E secondo me anche per “La quarta necessità” è la stessa cosa. Perché tu puoi parlare di una cosa ma non la puoi far vedere.
Quanti articoli dedicati alle dive del porno, alla pornografia, o a quello che ha parlato di prostituzione ci sono su D Donna? In ogni numero c’è qualcosa di un po’… pruriginoso, per un certo pubblico anche femminile che… insomma il pubblico femminile è interessato a quelle cose, non è che lo puoi negare. Però, il farlo vedere… per cui puoi pubblicare la recensione, anche far vedere molte tavole del libro di Chester Brown “E io le pago” – che ho regalato a amiche senza alcun problema – però non puoi pubblicare una cosa che accenna. Tralaltro di “La quarta necessità” puoi pubblicare benissimo delle tavole che non hanno niente di pornografico. Però in “La quarta necessità” ci sono delle pagine pornografiche e allora [per] questo non deve essere nemmeno pubblicizzato.

[…] Quando io faccio, quando faccio fumetto, so che voglio muovermi in un terreno in cui sono libero: perché io sono perfettamente in grado di fare delle cose che vendono. E quando faccio le cose per Alessi so che mi muovo in un mondo dove devo vendere, dove voglio vendere, e faccio delle cose che vendono. Io so progettare una cosa perché questa venda molto, però quando faccio fumetto non voglio fare questo tipo di calcolo.

[…] più passano gli anni [e più mi accorgo] che il mondo del fumetto è un mondo dove, a parte alcuni casi, nell’80% dei casi regna la povertà. Estrema, in certi casi. Ma dove regna la povertà estrema si annida anche la libertà, perché in un media che tutto sommato non crea un grosso flusso di danaro, c’è anche la possibilità che non essendoci grossi interessi è anche un media in cui non c’è molto controllo. Per questo hai la possibilità di fare per un editore grosso come Rizzoli un libro come “La quarta necessità”. Oppure tante altre cose. C’è il mondo dell’arte contemporanea, che dovrebbe essere il mondo della libertà estrema, è in questo momento, il mondo del calcolo. […] All’ArteFiera di Bologna, che è la più grossa fiera di arte contemporanea che c’è in Italia, non senti nessun gallerista, nessun critico, nessun artista che parla delle opere che ci sono in mostra. Parlano tutti di quanto ha venduto l’artista, di quanto sta vendendo in quel momento il gallerista, se quel gallerista è rientrato delle spese… e in più, poi, è un mondo tutto sommato stupido. Il mondo del fumetto è un mondo dove i fumettisti, gli autori di fumetti, sono molto curiosi. C’è molta curiosità. L’autore di fumetti tipo è un autore che legge molto, che va a vedere le mostre di arte, che vede molti film, che guarda tutto quello che accade al di là del fumetto. Il mondo dell’arte contemporanea in questo momento, invece, è un mondo molto chiuso. Non glie ne sbatte un cazzo di quello che succede nel mondo del fumetto e in buona parte non glie ne sbatte un cazzo di nient’altro che non sia autoreferenziale. […]
Ci sono cose che sono legate al mondo del fumetto, del cinema d’animazione, al mondo del cinema, dei video musica, che è un genere che si è completamente liberato con l’avvento di YouTube. Il che ha fatto che c’è un sacco di band che fanno video meravigliosi, interessantissimi al di là di MTV. MTV è esattamente la morte della visione mentre invece il web ha aperto praticamente le porte a tutti e ha la possibilità di accedere a un sacco di tecnologia che un tempo era impossibile da utilizzare a basso costo, con cui puoi comunque fare delle cose bellissime ed egregie. [Il web] ha aperto un mondo di creatività che per il mondo dell’arte contemporanea è inesistente. Al mondo dell’arte contemporanea non glie ne frega niente. E quindi in questo momento io penso che il mondo del fumetto è un mondo molto vivace, molto vitale, e anche se non ci sono soldi è un mondo in cui c’è moltissima creatività.

Io quando ero giovane avevo le idee già abbastanza chiare su quello che doveva essere il fumetto. Anche quando ero piccolo lo vedevo come una vera a propria arte di tipo democratico, un tipo di forma di comunicazione che costava poco, nel senso che poteva costare poco a chi lo acquistava e costava poco anche per chi la faceva, nel senso che tu puoi fare un fumetto oggi con un computer ipercostoso come puoi fare un fumetto con una matita ed hai lo stesso risultato se sei bravo. È un mezzo molto diretto. […] Se io faccio un oggetto di design mi devo confrontare con l’ufficio marketing che poi deciderà se questo oggetto va prodotto o meno, con problemi di materiali, problemi di fattibilità, problemi anche di quanto questo oggetto debba costare al pubblico. quindi bisogna togliere, sistemare, perché questo oggetto arrivi al pubblico al giusto costo. Quando tu fai un fumetto questi problemi non ci sono. Tu fai un fumetto e puoi fare esattamente quello che hai pensato e pubblicarlo. Adesso con l’avvento del web praticamente non hai più nemmeno bisogno di stampare. È il mezzo più democratico ed è il mezzo che si avvicina di più in assoluto a quello che pensa di fare un autore. L’autore ha un’idea, la mette in pratica e la pubblica, anzi, non la pubblica neanche più. Quindi c’è un rapporto diretto. Paradossalmente, una volta, quando tu eri un artista, facevi l’artista e non vendevi niente. E allor afacevi i fumetti per poter sopravvivere con i fumetti. […] Adesso paradossalmente si sta verificando la situazione contraria. Un autore […] dice: “Ma se faccio quattro quadri, in cui ci sono dei conigli buffi… questi quattro quadri li vendo, anche a mille euro l’uno”. Però a me, di fare conigli buffi, me ne sbatte il cazzo. Però con i soldi con cui vendo questo quattro quasdri, io mi pago un libro, mi faccio il libro. O meglio, più che pagarmi il libro, pago il mio tempo in cui poi io penserò a fare il libro, perché il libro a fumetti è la cosa in cui mi sento più completo. In cui io sono regista, scenografo, in cui dirigo gli attori, in cui metto delle idee grafiche, cose che non potrei mai fare in un film perché non ho i soldi per farlo anche perché poi, alla fine, per fare un film in Italia, come in qualsiasi altro paese, devi scendere a una quantità tale di compromessi per cui alla fine il tuo film non è più il “tuo” film: è il film fatto da un centinaio di persone che ci hanno messo la bocca.

[…] anche se il libro non è realistico, è grottesco, [e l’assenza di nuove tecnologie] è anche una scelta relativa alla personalità del protagonista. […] Quando arrivano le nuove tecnologie lui diciamo che lui ha più o meno sessant’anni. Non le utilizza perché non è interessato e perché se le utilizzasse sarebbe il classico italiano che le utilizza per far vedere che ha l’ultimo modello di cellulare. Il contatto che una persona di una certa età […] e che ha determinati soldi è esattamente come il collezionista che ti porta a casa per farti vedere che lui ha comprato quel quadro dell’artista contemporaneo, di cui tutto sommato non capisce nulla ma l’ha comprato perché è importante in quel momento avere un’opera… o avere l’ultimo modello di iPhone o avere i computer Mac perché è una questione di “design” come ti diranno quelli che penseranno di essere più acculturati.

[…] Noi ci siamo sforzati, per tutta la durata della realizzazione di questo libro, di non pensarlo come una metafora del berlusconismo, ma casomai ma casomai di pensarlo come una specie di piccola storia morale del perché l’italiano è così. Del perché l’italiano si è… che poi in realtà l’italiano non si è lasciato fregare dalla politica. Il problema è che l’italiano pensa sempre a sé stesso. Non pensa agli altri. O perlomeno l’italiano medio, in questo caso, non pensa in maniera collettiva. […] Lo si vede in molte persone per bene eccetera, che dicono “Ah, io sono una persona per bene, ho votato Berlusconi, me ne pento però io l’ho fatto in buona fede…”. No! No! Perché se sei una persona per bene non puoi aver mai pensato… o il problema è che non pensi. Il problema dell’italiano è proprio quello.

Il nostro personaggio, Walter Farolfi, non è ignorante. Viene da una famiglia per bene. Viene da una famiglia colta, che frequenta persone di una certa levatura. È un ironico, un cinico, che vede perfettamente cosa gli succede intorno. Non è un ignorante, uno cui le cose capitano per caso. Ed è questo il problema. Il problema non è che gli italiani arrivano a un certo momento perché, poveretti, sono stupidi. Arriva a un certo momento proprio perché della società e della collettività, a molti italiani non glie ne importa niente. Quando molta gente mi diceva: “Ah, ma come si fa? Come hanno fatto a rivotarlo? Ma non lo sanno? Non hanno visto?” […] Guarda che all’italiano, anche se gli porti la bara di una persona e gli dici: “Guarda che l’ha ammazzato lui!” non glie ne frega niente. All’italiano non glie ne frega niente. È questo il punto.