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Luci e ombre di Hollywood – Intervista a Roberto Baldazzini

Il disegnatore racconta la lavorazione di “Hollywoodland”, volume realizzato per Sergio Bonelli Editore e pubblicato nella collana Gli Inediti

di Nicola D’Agostino

Scritto da Michele Masiero e disegnato da Roberto Baldazzini, “Hollywoodland” è un noir a fumetti di oltre 250 pagine ambientato negli anni ’20, in un’ancora giovane Hollywood. Tra fondali sfarzosi, sordidi locali e enormi interessi economici punta l’obiettivo sulle vicissitudini, le passioni e le disillusioni di due fratelli con esistenze apparentemente agli antipodi.

Ho contattato il disegnatore per approfondire l’ideazione e realizzazione dell’opera.

Come sei stato coinvolto in “Hollywoodland”?
Ho passato il 2014 a fare incontri e mostre per il volume “L’inverno di Diego” pubblicato da The Box, e verso la fine dell’anno ho preso appuntamento con Michele Masiero in Bonelli. Volevo saggiare il terreno per vedere se il mio progetto su “Le quattro stagioni della resistenza” (di cui “L’inverno…” era stato pensato come primo capitolo, NdR) potesse trovare un nuovo editore. Nel colloquio abbiamo sviscerato la questione ma dopo circa un mese la decisione di Michele è stata che non era interessato a sviluppare il mio progetto ma di raccontare un nuovo romanzo a fumetti, scritto e sceneggiato da lui.
Ben presto mi ha spedito un soggetto, che mi è piaciuto subito moltissimo, e ho accettato. Ricordo la prima lettura e sono rimasto esterrefatto per quanti contenuti mi risuonassero dentro. Il desiderio di illustrarlo è diventato impellente! In origine il fumetto doveva essere sulle 200 pagine di lunghezza, che sono poi diventate 262.

È la prima volta che pubblichi per Bonelli?
In questi termini sì, anche se, all’inizio della mia carriera, ho già lavorato per la Sergio Bonelli Editore creando il personaggio di Stella Noris (con Lorena Canossa). È stato per la rivista Orient Express, acquisto [allora] recente dell’editore milanese. Quindi possiamo dire che ho già fatto parte della “scuderia”.

Anche la tua collaborazione con Masiero è di lunga data. Ce ne parli?
Per risponderti dobbiamo tornare indietro tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 a Bologna, un paradiso tra i paradisi. Ricordo con piacere quel periodo, ci ho pure abitato in quella città, in via delle Belle Arti. Frequentavo Michele che lavorava presso Alessandro Distribuzioni. In quegli anni nacque la rivista Cyborg e insieme a Michele, in veste di sceneggiatore, sviluppammo una storia per questa rivista. In seguito con Michele ne creammo un’altra, dedicata al mio grande feticcio, l’icona femminile del feticismo mondiale, Bettie Page. Con “Chi ha ucciso Betty Page?” / “Who Killed Bettie” ci siamo divertiti a costruire un piccolo sistema narrativo, ricco ed efficace, che ricordo tuttora come qualcosa di forte e pregnante. C’era la dimensione pop, c’era l’investigazione e c’era la sensualità, tutti ingredienti che sono parte della mia formazione di autore di fumetti. Poi Michele è partito per Milano, e direi che aveva le idee chiare di dove voleva arrivare. In seguito ci siamo visti sporadicamente, situati in contesti editoriali diversi, per ritrovarci dopo venticinque anni a fare qualcosa di molto più corposo insieme e questo mi ha reso enormemente felice!

Sei o sei stato un lettore assiduo delle serie Bonelli? Quali?
Beh il mio primo eroe dei fumetti è stato Tex. Fino all’età di 15 anni mi sono letto tutti gli albi e mi immedesimavo in suo figlio Kit. Ho imparato a leggere i fumetti con Bonelli.
Poi, crescendo, la mia immaginazione ha preso il sopravvento e ho letto sempre meno, non solo le serie Bonelli, ma tutto il resto. Ho sempre seguito le serie di Bonelli nella fase iniziale, ad esempio Dylan Dog e Nathan Never, e poi le ho abbandonate, ma faccio così anche con le serie televisive. Abbandono perché ho bisogno di stimoli diversi, di atmosfere nuove per creare. Se penso a qualcosa di mio che ho serializzato, penso di avere sbagliato… preferisco una storia che inizia e finisce come “Hollywoodland”, ad esempio!

Quali sono stati i tuoi tempi di lavorazione?
Tre anni e mezzo, senza scadenza. Ho lavorato continuamente al fumetto, alternandolo con qualche mostra e diverse illustrazioni d’altro genere. Raccontare una storia talmente a lungo è come vivere un’esistenza parallela in compagnia dei suoi personaggi. Mi piacciono i tempi così dilatati della narrazione.

Quanto tempo hai invece dedicato agli studi e la documentazione?
“Hollywoodland” è ambientato negli anni ’20, un territorio dell’immagine che non conoscevo così bene, anche se ho sempre guardato le comiche di Buster Keaton e quelle di Stanlio e Olio con estremo piacere. Tra libri e cataloghi, ho messo insieme quello che avevo di cartaceo per documentarmi sulla moda e sugli ambienti. Ho notato che la differenza la fa il tempo, cioè quanto ci si sofferma su quelle immagini, su quei disegni.
Infatti dopo le prime cinquanta tavole ho cominciato a sentirmi più a mio agio, con le proporzioni e gli atteggiamenti dei personaggi, ma anche con la luce del giorno e della notte. Come tutti potranno vedere, ho scelto la fisionomia di Louise Brooks, icona femminile per eccellenza degli anni ’20, per Lillian, il personaggio femminile principale. Ho pensato a lei da subito e non vedevo l’ora di disegnarla, anzi è diventata una specie di avatar per me. Al di là del caschetto è proprio la sua espressività che mi ha catturato! Ho imparato a conoscerla meglio in questa circostanza.

Raccontaci il tuo processo di lavorazione. Quante fasi sono intercorse dalla lettura della sceneggiatura di Masiero alla tavola finita?
In un primo momento pensavo di avere le idee chiare su come procedere, ma ho perfezionato solo un po’ alla volta un processo che rispettasse le tempistiche e che al contempo garantisse dei buoni risultati.
Quindi posso dire che le fasi di lavorazione sono state sei:
1) Story-board, con disposizione dei personaggi nella scena; non è necessaria la loro riconoscibilità, ma il piano cinematografico per avere una regia della tavola che funzioni.
2) Perfeziono lo story-board quel tanto che basta per essere convinto e lo faccio vedere allo sceneggiatore per eventuali modifiche, poi lo scansiono e monto nel formato per l’inchiostrazione, quindi ristampo per lavorarci bene a matita.
In questa fase inserisco i testi al computer per controllare gli ingombri, anche se non sarò io a inserirli. Questa è stata la prima volta che ho disegnato una storia a fumetti senza occuparmi personalmente di balloon e didascalie.
3) Al tavolo luminoso creo le matite belle, nel formato giusto per l’inchiostro. Immediatamente dopo faccio una scansione e un montaggio di controllo, terminato quel certo numero di pagine, aggiungo tutte le parti nere, sempre a matita. Ripropongo le tavole allo sceneggiatore.
4) Ricalco in bella, su un cartoncino più pesante, un Fabriano 4 o 6, tutte le mie matite, solo le linee.
5) Inchiostro con pennello e/o pennarelli.
6) Scansiono le tavole a 1200 dpi in scala di grigio prima di riempire i neri. Nelle tavole di “Hollywoodland” ci sono molti neri e quindi ho preferito, per questioni di tempo, farli con il computer, venti minuti invece di tre ore, grossomodo. Certo, gli originali non hanno i neri, ma mi ripropongo un giorno di metterceli… dopotutto basta riempire gli spazi! Poi, da non sottovalutare in questa fase, c’è bisogno di un po’ di ritocco e pulizia dopo la scansione.
Questo processo l’ho seguito in media su dieci tavole alla volta per poi ricominciare con quelle nuove, ma a volte ho preparato anche quaranta tavole a matita prima di passare all’inchiostrazione.

Che strumenti hai usato?
Stabilito il formato, un poco ridotto rispetto al mio standard, originariamente avevo deciso di utilizzare il pennarello per i personaggi più piccoli e il pennello per il resto, ma progressivamente, nelle ultime cento tavole, ho finito con utilizzare esclusivamente un pennarello a punta pennello, prima rigida e poi morbida! Anche qui l’esperienza insegna. All’inizio del lavoro, non mi sarei mai immaginato che avrei trovato un pennarello, un Tombow per la precisione, sulla mia strada e che questo avrebbe sostituito in toto il mio amato pennello!

Parliamo della copertina. È stata fatta in corso di lavorazione o ad albo ultimato? Hai dovuto seguire indicazioni particolari da parte della Bonelli?
La copertina è stata realizzata ad albo ultimato. L’idea vincente ce l’ha avuta Michele. Io l’ho arricchita, diciamo così, ma il mio vero contributo è stato sulla scelta dei colori, che dovevano avere una presenza solo grafica. La scelta del blu e del giallo mi sembrava creasse l’ atmosfera giusta, che ricordasse il cinema in bianco e nero degli anni ’20.

Negli ultimi anni ti sei dedicato a progetti e generi molto diversi tra di loro: un dramma storico con The Box, questa storia noir per Bonelli e ora sei al lavoro su una biografia di Jayne Mansfield per i francesi di Glènat. Sentivi l’esigenza di cambiare, dopo quasi trent’anni di storie erotiche, o sono scelte fatte meramente in base alle opportunità che si sono presentate?

Il mio primo amore è stata la Belle Epoque, ma non sono ancora riuscito a costruire nulla basato su quel periodo. Amo alla follia gli anni ’50 per il loro calore, ma non disdegno gli anni ’30 per la loro freddezza e parlo sempre di linee. Inoltre ho ambientato storie anche in epoche più recenti, come gli anni ’70 in “Des Dieux et Des Hommes”, su testi di Dionnet. Insomma: mi piace curare il riferimento storico ovunque ci troviamo. Con Jayne Mansfield sto ripercorrendo tutti gli anni ’50 e sconfinerò nei ’60, ma sono partito dai ’40.
Posso dire che il mio non è bisogno di cambiamento ma desiderio di esplorazione.

Una versione di questa intervista è stata pubblicata sul mensile Fumo di China 285 dell’aprile 2019. Tutte le immagini sono © Roberto Baldazzini e Sergio Bonelli Editore.