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Linux, largo ai cloni di Red Hat

Si afferma una particolare forma di concorrenza alla storica distribuzione commerciale del Pinguino: in nome del codice libero. E di prezzi più accessibili. Ma lo scontro non c’è.

di Nicola D’Agostino

Nel 2003 Red Hat ha effettuato un brusco cambio di rotta ed ha biforcato le strade delle sue due versioni di Linux: da un lato in Rhel – Red Hat Enterprise Linux – un’iniziativa ufficiale di carattere esclusivamente commerciale e dall’altro in Fedora, una versione libera ma non supportata e in gran parte delegata alla “comunità” di utenti e sviluppatori.
Nonostante un programma di transizione tra le due opzioni, agli antipodi come filosofia e sopratutto come prezzi, si è creato improvvisamente un vuoto, colmato inizialmente dalla concorrenza di altri fornitori.

Buoni cloni

Pian piano però sono arrivati anche una serie di altre piccole nuove distribuzioni, diciamo così “creative”. Queste ultime hanno raccolto il testimone clonando di fatto Rhel e garantendo la compatibilità a costi nettamente minori. Come? Usando i pezzi “open” che Red Hat, in pieno rispetto delle licenze free ed open, rilascia pubblicamente.

Se a Red Hat è occorso più di un anno e mezzo per assemblare e rilasciare l’ultima versione di Rhel, agli sfidanti, che rispondono ai nomi di Lineox, Tao Linux, Scientific Linux, X/OS Linux e dell’eloquente Wbel, White Box Enterprise Linux, sono bastate poche settimane per creare alternative (quasi) identiche a costo zero o al massimo ad una frazione dei 2499 dollari per postazione chiesti dall’azienda del cappello rosso.

Il successo di CentOS

| Tra tutti particolare successo ha avuto CentOS, nata per mano di Greg Kurtzer nel dicembre del 2003 e che, forte di un’agguerrita comunità di sviluppatori, conta attualmente migliaia di utenti, tra cui l’Università di Manchester. Per soli 12 dollari Kurtzer garantisce un sistema aggiornato in tempi brevi e praticamente identico a quello di Red Hat, o meglio “legalmente il più possibile identico”.

Nessun danno a Red Hat

Red Hat sinora sembra interpretare in maniera benevola l’esistenza del fronte di “riassemblatori”. Con l’eccezione di un’ingiunzione legale lo scorso febbraio quando a CentOS fu chiesto di rimuovere ogni residua istanza (nome e logo) a nome Red Hat, l’azienda ha garantito che intende continuare a rilasciare tutto il suo codice e che vede anzi di buon occhio gli inseguitori, arrivando addirittura a consigliare in sede informale il ripiego verso una delle alternative a minore costo.

Red Hat dice: noi abbiamo il valore aggiunto

CentOS e soci infatti non paiono avere danneggiato le vendite o la posizione dominante di Red Hat. Gli abbonamenti a Rhel sono anzi saliti in due anni (da 33 mila a 140 mila) e l’esistenza dei cloni rappresenta una implicita forma di pubblicità per la storica azienda. Red Hat, sottolineando il valore aggiunto della propria offerta (richiesta dai prodotti di aziende come Oracle) conferma e rafforza così la propria presenza da leader indiscusso sul mercato, al tempo stesso nel rispetto delle licenze originarie di GNU/Linux e con il bonus di un ritorno positivo d’immagine.

Articolo originariamente pubblicato su Mytech.it