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Intervista a Alessandro Tota

Il fumettista parla del suo nuovo libro, “Fratelli”, pubblicato in Italia da Coconino Press.

alessandrototalucca2011

L’intervista è stata realizzata a Lucca Comics 2011 grazie alla collaborazione di Alessandro, di Luca Baldazzi e di Coconino Press.
Alcuni estratti sono stati già pubblicati in un articolo nella sezione libri di Panorama.it.
Quella che segue è invece la versione integrale.

L’intervista è divisa in quattro parti, di cui di seguito metto a disposizione l’audio, e una trascrizione, sostanzialmente integrale.
Buon ascolto e buona lettura!

Nicola D’Agostino: Come e quando è nato “Fratelli” e [qual è] il percorso che ti ha portato a decidere che sarebbe stato un libro di… quante pagine sono?
Alessandro Tota: Centosessanta.

NDA: Centosessanta pagine. Insomma: com’è nato [questo] volume che è molto diverso da quello precedente, “Yeti”?
AT: Il progetto nasce in seguito all’invito a partecipare a un’antologia, pubblicata da Coconino Press, dal titolo “Gli Intrusi”, un volume uscito nel 2007. Lo scopo di questa antologia era di mandare una serie di autori nel territorio barese e ognuno di loro doveva realizzare una storia sulla loro esperienza. Nel mio caso, essendo nato a Bari, sono stato facilitato in qualche modo perché conoscevo benissimo la città. È la città dove sono cresciuto e ho deciso di raccontare la storia di questi due fratelli che in seguito alla scomparsa del padre, vendono progressivamente tutta l’eredità che si sono visti assegnare, fino a restare con un solo oggetto di valore, che è questa opera del pittore Mario Schifano. Quindi il racconto comincia nel momento in cui loro, ormai ridotti quasi in miseria, sono costretti a battere a tutte le porte della città in una traversata di Bari per piazzare l’opera di Schifano. Era già una storia abbastanza lunga per i miei standard di qualche anno fa: una cinquantina di pagine. Era la storia più lunga che io avessi mai realizzato sino a quel momento perché le mie esperienze precedenti erano il diario che pubblicavo sul blog, e la mia collaborazione alla rivista Canicola e a qualche altro giornale come Repubblica XL o Internazionale, ma si trattava di storie brevi, molto brevi.
Era una storia in cui è venuto fuori immediatamente che la città di Bari era qualcosa che volevo raccontare. È emerso subito un desiderio fortissimo […] di raccontare questa città.

NDA: Questo è successo dopo quanti anni all’estero?
AT: È successo quando io ero… andato via da Bari da […] sette-otto anni. E vivevo già in Francia, dopo un periodo trascorso a Bologna dove ho studiato pittura e ho lavorato alla rivista Canicola, [fondata] insieme ad altri disegnatori.
Quando questo racconto è stato pubblicato mi è rimasta la voglia di raccontare Bari ma l’urgenza della nuova situazione parigina mi ha spinto a […] “fermare le macchine” e a concentrarmi su un lavoro su Parigi. Che comunque era una città nuova per me: era un posto nuovo in cui le storie e le impressioni si sprecavano e bisognava dargli una forma: […] “Yeti” (http://www.coconinopress.it/yeti.html).
Quando questo progetto è stato pubblicato, ho voluto subito ricominciare a raccontare Bari e ho sviluppato un progetto di serie, perché nelle mie intenzioni questo libro dovrebbe essere il primo di una serie. E ho scelto di realizzare un secondo racconto, più lungo, che racconta il sottobosco della piccola criminalità legata alla droga alla fine degli anni ’90 a Bari. Per dare unità al libro ho creato un incrocio tra le vicende dei personaggi, che sono quindi i due fratelli e tramite un legame familiare più leggero, un loro cugino, gettiamo uno sguardo su quella che è la vita di questi adolescenti nella Bari di… nelle mie intenzioni è un momento molto preciso, il 1998, il 1999, la fine degli anni Novanta, un periodo che non è stato molto raccontato nel fumetto. E nel cinema… neanche. Non è stato raccontato da nessuno! [Ride]

NDA: [Fratelli] È un tentativo di dimostrare che c’è il materiale grezzo per creare […] una narrativa di alcuni luoghi meno “presenti sulla mappa”?
AT: Non c’è dubbio che un narratore possa trarre dai luoghi in cui ha vissuto materiale per delle storie. Trattandosi di posti in cui spesso le situazioni e le circostanze sono ancora eccezionali […] io adesso parlo della Puglia perché conosco la Puglia ma non ho dubbi che la Sicilia e la Calabria siano vicine a questa realtà… Sono comunque situazioni un po’ di frontiera, in cui quelli che sono i modelli di vita delle grandi città europee, e quindi tutta una serie di modi di vivere, di intendere lo spazio urbano, di intendere i rapporti umani, non è che si siano imposti completamente. Ci sono ancora delle sacche in cui c’è un altro modo di vivere. È vero che questi sono poi i posti in cui fa più orrore quando vedi che arriva il centro commerciale, in cui vedi che c’è la fila perché c’è l’apertura del megastore, di queste cose qua… ci fa più orrore perché si vede che non ha niente a che fare con il luogo. […] L’omologazione mette sempre tristezza. Però in quei posti a me sembra ancora più doloroso.
Secondo me in Italia abbiamo dei precedenti che sono letterari e in qualche caso cinematografici . Io come lettore, come persona che partecipa a un dibattito più ampio di quello sulla narrazione non posso che augurarmi che gli autori si concentreranno sulle cose che conoscono meglio invece di inventare una storia a New York, anche perché alla fine la narrativa americana, che ha una fonte di influenza enorme sulla narrativa mondiale… di cosa parla? Voglio dire, Philip Roth di cos’è che parla? Parla della sua periferia. Faulkner di cos’è che parla? Parla di posti in cui ha vissuto. E così tutti gli altri. Carver di cosa parla? DI sobborghi, di questi posti che all’apparenza […] non erano il centro del mondo. Secondo me proprio dove non è il centro del mondo si possono trovare delle storie interessanti.

NDA: Quanto c’è di tuo in “Fratelli”? Quanto c’è della “tua” Bari?
AT: Beh, tutto. Io non sono un barese tipico perché la mia famiglia si è spostata molto per il lavoro di mio padre per cui ho girato un po’ tutta la Puglia. Ho vissuto a Bari […] a casa dei miei genitori, gli ultimi tre anni del liceo che coincidevano con il momento in cui cominciavo veramente a stare per strada, a uscire perché ero molto curioso e la scuola mi interessava progressivamente sempre meno. Mi interessava sempre di più scoprire il mondo, come è normale a diciassette anni. E quindi ho un’esperienza parziale che non è quella del “colore locale”. La mia è un’esperienza di una realtà urbana, piena di situazioni conflittuali estreme…

NDA: [Una realtà urbana] che stava già cambiando mentre crescevi?
AT: Sì, è cambiata… sai, c’è una frase di Ennio Flaiano in cui dice che sì, la nostra è un’epoca di cambiamento, come sempre, come tutte le epoche. Io mi sono trovato a cavallo tra un momento che era ancora quello dei centri sociali, contro cui spesso ci si accanisce, non comprendendo che rispondono… la realtà dei centri sociali è molto complessa però volendo dare uno sguardo d’insieme… […] sono una risposta a una vera necessità che è quella dell’aggregazione giovanile. Si ha un bel dire “non fate questo, non fate quello” ma i ragazzi hanno bisogno di luoghi, di luoghi veri, concreti. le politiche giovanili devono anche fare questo. Io sono cresciuto in una città in cui non esisteva nessun tipo di politica… non c’era niente. E il movimento studentesco in quegli anni, di cui si dice sempre peste e corna, non ci si rende conto che il movimento studentesco non sono i pochi eccessi, il movimento studentesco […] per un ragazzo è la prima volta che usa una struttura per analizzare una realtà contingente alla sua vita. È una fase molto importante nella vita, l’inizio della politica. Non significa che siano tutte rose e fiori: significa che è un momento importante. […] Io sono cresciuto in un momento in cui non c’era niente. Quindi stavamo per strada e l’aspetto positivo di quest’esperienza era che attraversi una realtà composita e capisci che la gente non è tutta come te. Ci sono tutti i tipi di persone possibili. Ci sono i ricchi, ci sono i bravi ragazzi, gli spacciatori, ci sono i rovinati da anni di droghe, ci sono i personaggi caratteristici che hanno un comportamento estremamente interessante e dei talenti bellissimi dei quali si capisce che non nascerà mai nulla di vendibile… È un’esperienza che ha avuto dei lati positivi perché credo [che dalla mia] c’era una famiglia molto solida dietro, per cui io vedo in maniera molto costruttiva tutte queste esperienze. C’era tanta gente, nella stessa situazione, nella stessa epoca e quindi nelle stesse circostanze culturali e politiche di quell’epoca lì che non ne è venuta fuori.

NDA: Hai avuto bisogno di un aggiornamento per (ri)narrare quei luoghi? AT: Quando hai fatto il primo racconto per l’antologia sei tornato a Bari? O hai parlato, cercato amici, cercato di chiedere com’è adesso, chiedere conferma di alcune cose che avevi visto all’epoca.
Non ho fatto interviste per questo libro perché il materiale era già tantissimo nei miei ricordi. Certo, ho un archivio fotografico su Bari [che è] notevole che ho costruito in tanti anni [ride]. Quando è arrivato il digitale, poi… mi sono dato alla pazza gioia. […] Sono un fan della cattiva fotografia documentaristica. Poi per fortuna vivo e lavoro con una fotografa tradizionale che utilizza tutte le tecniche…

NDA: E ti bacchetta.
AT: Esatto. Le mie foto le vede per quello che sono e mi spiega la differenza tra una buona foto e una cattiva, però per me è un reperto. È un documento, la fotografia, il tipo di foto che faccio io. Una cosa che a me piace molto è quando i luoghi sono riconoscibili. Anche nel mio primo libro c’è l’importanza dei luoghi. Questo per quanto riguarda la rappresentazione della città [mentre] per quanto riguarda l’aspetto delle interviste, le sto facendo per un libro che vorrei fare. Sto interrogando diverse persone che conosco da tanti anni, riallacciando anche alcuni rapporti e sono storie molto… scopro tante cose che non sapevo perché sono andato via. Tante cose che succedevano dietro le quinte di quella che era la mia esperienza.

NDA: Il prossimo [fumetto] sarà quindi sempre un lavoro legato a un luogo?
AT: Sì, sì, sì. Ritorneranno alcuni dei personaggi di questo libro. Ne introdurrò altri e vorrei fare un tentativo più forte di costruire una mitologia, più vicino a quello che è il lavoro che fanno alcuni registi. In una discussione, prima, citavamo “LaCapaGira”. Ecco quello è un tipo di approccio del cinema di creare figure che si staccano dallo sfondo. Vorrei provare a fare questa cosa qui in particolare con una figura, che viene raccontata da diversi punti di vista. Però è un progetto in fase embrionale per cui preferisco aspettare un po’ prima di lanciarmi in dichiarazioni pubbliche. [Ride]

NDA: Quali sono i punti di riferimento letterari… o per dire […] questo libro vi piacerà se vi è piaciuto…? Pensiamo non solo a chi già legge e apprezza il cosiddetto fumetto d’autore o indipendente […] ma anche chi è interessato a ciò che sta facendo il fumetto ma viene dalla letteratura.
AT: Io mi rivolgo idealmente ai lettori di romanzi. Questo lo dico come autore che a un certo punti si è smarcato da tante influenze che sono i grandi amori dell’adolescenza che sono il fumetto degli anni ’70 italiano, Pazienza, Frigidaire…

NDA: Quali altri nomi?
AT: Scozzari sicuramente… insomma, tutta l’esperienza del Male e del fumetto italiano che davvero interrogava la realtà in maniera davvero polemica, che è stata per me la più grande influenza nel mio periodo di formazione. Quando ho cercato la mia voce, l’ho trovata negli esempi letterari. per me John Fante è stata la rivelazione. Da un punto di vista della scrittura… Io quando ho trovato John Fante… [ho detto] Eureka! Era il massimo. Lì c’era tutto. C’era il massacro di sè stessi, la presa in giro, la tendenza alla mitizzazione consapevole che viene smascherata dall’autore stesso, la menzogna, il gioco con la verità, c’era tutto quello che a me piaceva: fatto perdipiù con un tono umoristico, in molti casi. Che poi poteva virare al pianto. Io sono un autore umoristico, di base. Il mio registro tipo è un registro umoristico. se tu mi chiedi “Fai una storia”, “Fammi un fumetto”, io faccio un fumetto comico.

NDA: Ma “Fratelli” non è un fumetto comico…
AT: “Fratelli” non è un fumetto comico e io un po’ soffro di questa cosa, in questo momento, del confrontarmi con dei temi più drammatici. Infatti ci sono dei momenti particolarmente grotteschi in cui spero si viri un po’ verso il comico, ma è perché ho una necessità molto forte di confrontarmi con questi temi. Cerco di alternare: un lavoro con delle tinte più dure, più fosche, con una cosa più leggera. Spero che riuscirò a mantenere questa diversificazione, questa diversità nel mio lavoro. Quindi, parlando di letteratura: Fante e poi quando ho scoperto i romanzi comici di Philip Roth è stata un’altra scoperta perché lì c’era tutto un tipo di comicità americana che a me piaceva e che di colpo diventava materiale letterario a cui attingere. […] Io sono abbastanza analitico come lettore. Sono uno che rilegge molto, che sottolinea, che cerca di capire quali sono le strutture dei racconti, il montaggio dei racconti. Insomma: mi piace molto questo tipo di atteggiamento, mi dà molto piacere guardare i libri da vicino. Poi mi piace molto Vonnegut, mi piace molto Bolaño, tantissimo: “I detective selvaggi” è un libro eccezionale. La letteratura italiana, adesso Nicola Lagioia a proposito di autori che parlano di Bari. Quando ho letto “Riportando tutto a casa”, è stata una lettura che ha confermato in me una serie di desideri e ho visto che si poteva fare qualcosa su Bari. Avevo già cominciato [Fratelli]… ed è stato forse un bene perché ho evitato di essere troppo influenzato. Però è stata una lettura che mi ha fatto molto piacere.

Questo discorso sul disegno, sul fatto che cambio stile, è un discorso in cui ho paura di sfociare nel tecnicismo però, secondo me, è importante che per ogni storia un autore metta a punto un sistema espressivo adatto a quelle che sono le esigenze. E io cerco di fare questo lavoro perché una storia come “Yeti” ha i suoi punti di forza nel contrasto tra una figura semplice e un ambiente realistico. Una storia come “Fratelli” non può usare un elemento fantastico per cui bisogna trovare un’altra voce. Poi è chiaro che sono sempre io. Ma [è] esattamente come per un attore: se deve fare dei ruoli diversi, non è che li fa sempre nello stesso modo. [Ride] Esattamente come una persona, parla in modo diverso a seconda che stia parlando con la sua ragazza o con il suo datore di lavoro o con un’altra persona. Voglio dire: è quella la comunicazione. Mica siamo dei blocchi che non si adattano mai. Anzi, è proprio il contrario.

NDA: Domanda “cattiva”. Quando hai fatto il primo pezzo di “Fratelli” che poi hai fuso con il resto… sei andato a ridisegnare qualcosa? Hai cambiato qualcosa?
AT: Ah, mi ricordo che mi sono detto “Adesso lo ridisegno tutto! Questa storia io la rifaccio: diventa un capolavoro!” E Fior… abitavo con Manuele Fior all’epoca, a Parigi avevamo lo stesso appartamento, poi siamo andati a vivere con le rispettive compagne e questa coabitazione si è interrotta. Manuele mi ha detto: “Lascia stare, non è il caso.” E io: “Vabbeh, non faccio niente.” Poi dopo un po’ ne parlavo con GiPi e faccio: “GiPi ma ridisegno tutto? Che dici, tu?” E lui ha detto: “Stai fermo. Stai buono. Che se lo rifai tanto il fatto che ci siano meno errori, il fatto che tu metta a punto meglio alcune anatomie o alcune prospettive,, non significa che il disegno sia più bello o più giusto. Significa semplicemente che i punti di fuga sono più corretti. Ma cosa te ne viene in tasca da questa cosa? L’importante è che arrivi un’emozione. Insomma, loro trovavano che arrivasse lì. E sono contento di aver seguito il consiglio. […] Ho riscansionato tutto. Ho rilavorato i file. Quello sì perché volevo… c’era una competenza che avevo acquisito nelle fasi di produzione di un libro. Però secondo me, quando fai una storia, quando sei lì davvero, quando la stai facendo davvero, con tutte le tue possibilità, le tue capacità, gli errori non contano tanto… […] Conta il qui e l’ora e se stai dando tutto o meno, che è la mia ambizione. Se si dovesse parlare di ideali estetici, io non ho un ideale formale: ho un riferimento che è quello del comportamento, della tenuta che deve avere l’artista. Il rigore, la partecipazione, la presenza nel momento in cui stai facendo il lavoro. Non fare carte false… Che poi tu disegni in un modo o disegni in un altro, o che disegni uno sfondo, un palazzo con più o meno finestre, insomma, non è che cambi tanto.

NDA: Ti ho fatto questa domanda perché avevo in mente l’esempio di Francesco Cattani [autore di “Barcazza”] e di come lui ha ridisegnato. però non ha ridisegnato facendo le cose più “belle”, anzi, ha semplificato, ha tolto. […] Se vai a guardare la prima versione [di “Barcazza] che è apparsa su Canicola ci sono figure più complesse, c’è più tratteggio, mi sa che ha addirittura tolto degli sfondi. Sì, ha ridisegnato, ma […] ha reso ancora più essenziale. Non si può dire che è un autore più maturo perché disegna meglio. È un autore più maturo per altri motivi. Addirittura penso che abbia tolto alcune cose che erano nella prima versione […] perché nell’economia della storia porbabilmente non funzionava. Nel tuo caso invece ha mantenuto l’integrità di quello che era il racconto [iniziale]?
AT: Sì, ma anche perché sai il mio lavoro è così legato a quelle che sono le cose che mi turbano, le cose che ho a cuore in quel momento lì. Che magari sono cose successe anni prima, però chissà perché tornano, ho bisogno di rielaborarle. Non è facile rimetterci le mani. E comunque è un poco un gioco tra lasciar decantare, lasciar passare tanto tempo, riflettere e poi nel momento in cui c’è l’urgenza devi lavorare così… ma io poi ho scelto una tecnica di disegno che è poco convenzionale per quello che è la tradizione del fumetto. perché non faccio le matite e i miei originali sono molto piccoli. Ho un sistema di lavoro che… io divido lo spazio. Faccio questo canovaccio di quello che sarà la tavola su uno storyboard molto puntuale. Faccio questo canovaccio e poi con della carta molto leggera improvviso su queste strutture. Perché sono una persona a cui piace molto disegnare e improvvisare, però devo incanalare questa cosa qui su quelli che sono le mie voglie di narratore, che sono quelle di storie più complesse. Però ho il terrore di questo momento. penso che la freschezza del tratto sia la cosa più idonea al mio modo di raccontare e quindi vado in quella direzione lì. Qui lo ripeto: l’esperienza di Canicola è stata molto importante perché è un tipo di disegno non convenzionale quello che fanno gli altri disegnatori. Non per niente è un tipo di disegno che trova eco nei vari ambienti europei del fumetto perché viene subito identificato come qualcosa di… ho paura a dire qualcosa di nuovo, però qualcosa di sincero nel suo rapporto con il disegno, con le problematiche del disegno. Quindi quell’esperienza è stata importante e poi c’è il rpecedente di GiPi che per tantissimi punti di vista mi ha ispirato e questa cosa del disegno, del modo in cui ha disegnato “Appunti per una storia di guerra” è stata molto importante. E poi il mio stile non somiglia a quello di Gianni assolutamente, però usiamo la stessa penna, per esempio. Lui mi diceva “Usa questa penna, questa è una penna che va bene.” Così ho cominciato a usarla quando l’oho incontrato personalmente…

NDA: E ti ha aiutato a avere questa immediatezza?
AT: Esatto. Sì, sì. perché lui poi era il primo che parlava proprio di questa immediatezza qui. Certo, lui nascondeva il fatto che lui è un disegnatore preparatissimo. Gianni è uno che sa dipingere molto bene… […] Lui un po’ gioca col fatto che poi è molto preparato. Io ho dalla mia gli studi accademici. Ho fatto anatomia, ho studiato pittura, ho studiato molto Storia dell’arte. Ho fatto l’Accademia di Belle arti a Bologna. Questo magari mi dà un pochino di struttura. Mi muovo su queste cose che ho imparato. E poi, come per tutti i disegnatori, c’è la ricerca continua che [si] fa sul disegno. Studi il disegno. Disegni dal vero.

NDA: Però c’è un tratto giusto per ogni storia.
AT: Esatto.

NDA: Quindi “Fratelli” ha questo tratto perché…
AT: …trovavo fosse il più puntuale.