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Grateful sharing: pirati senza fine di lucro

Si chiama tape trading l’antenato della diffusione non autorizzata della musica pop. Incoraggiato da alcuni, combattuto da altri, ha fatto la felicità di migliaia di fan. Ora una band storica lo ripropone: on line.

di Nicola Battista e Nicola D’Agostino

Non tutti gli artisti e le etichette sono contrari allo scambio di musica e al file sharing dei loro fan. L’esempio forse più famoso e coerente è quello dei Grateful Dead), più che un gruppo rock una vera leggenda che affonda le sue radici nei lontani anni ‘70.

A parte il flusso continuo di ristampe e inediti immessi nel mercato ufficiale dalle case discografiche, esiste un canale parallelo che probabilmente ha contribuito in buona parte ad accrescere il mito dei Grateful Dead e il numero di fan e collezionisti: parliamo dei bootleg autorizzati. A differenza di molti altri artisti di fama, “piratati” generalmente a scopo di lucro e senza il loro consenso, i Dead hanno incoraggiato il tape trading, ovvero, lo scambio di cassette bootleg realizzate artigianalmente dai fan durante i concerti live del gruppo.

Direttamente dalla West Coast
Secondo quanto professato dai Dead, lo scambio di cassette live da parte degli appassionati non danneggia il gruppo né le case discografiche: tali registrazioni spesso non sono di buona qualità e quand’anche lo fossero, ben poche etichette si presterebbero a registrare tutti i concerti e pubblicare qualsiasi cosa (anche materiale considerato “di scarto” e reputato inadatto alla pubblicazione ma magari prezioso per un ristretto numero di appassionati) venga prodotta da un certo artista. O perlomeno così era prima dell’avvento dell’era di Internet.

Oggi, se da un lato si sono viste operazioni commerciali piuttosto rischiose e finora mai tentate, come i 25 doppi Cd simil-bootleg realizzati dai Pearl Jam, dall’altro la rete ha permesso di realizzare a basso costo cose un tempo impensabili: i They Might Be Giants, da noi poco noti se non per una occasionale hit di qualche anno fa, sono diventati un gruppo di culto negli Stati Uniti anche grazie alla messa a disposizione tramite Emusic di tutta una serie di materiali – magari poco appetibili per una major ma gustosissimi per i fan – in una sorta di canale preferenziale: registrazioni dal vivo, demo, materiale amatoriale magari realizzato in albergo o in casa di qualche musicista amico e così via. Un servizio commerciale, come i Cd dei Pearl Jam, ma dai contenuti particolarissimi e realizzato a costo ridotto, perché basato sulla formula di abbonamento del noto sito di Mp3.

Una visione “illuminata”
Il tape trading lanciato dai Grateful Dead comunque resiste: da un lato si è trasformato in scambio di file Mp3, dall’altro nella forma evoluta del tradizionale scambio di supporti registrati. Con tanto di policy legale, i Dead consentono la pubblicazione su Web di file Mp3 con le proprie registrazioni live o lo scambio via rete degli stessi, purché non ci siano fini commerciali di alcun tipo (sono vietati link e banner che possano anche vagamente risultare “promozionali”).

Una policy molto ben studiata e allo stesso tempo “illuminata”. Non è infatti un caso che un filo comune unisca i Grateful Dead a quella che è l’organizzazione per eccellenza che si batte per i diritti del cittadino in rete, la Electronic Frontier Foundation). Infatti il co-fondatore dell’Eff, John Perry Barlow, ha scritto parecchi testi per il gruppo. L’Eff, d’altronde, è attiva da anni anche nel campo dei diritti digitali musicali e sul suo sito si trova un giochino in Flash in cui si illustrano vantaggi, svantaggi e rischi collegati al cercare, scaricare e condividere musica on line.

Ma i Dead non sono un caso isolato
I Grateful Dead non sono un’isola ma la punta di un iceberg. Ci sono artisti che rifiutano l’interpretazione attuale del copyright in campo editoriale musicale o, come David Torn, offrono i mezzi per il tape trading e un “placet” allo scambio di materiale ma addirittura chiede una copia di performance che non possiede.

Un punto di vista ancora più estremo è quello offerto da David Bowie, icona vivente del pop, anche lui come i Grateful Dead sulla breccia da diversi decenni, che pare conscio della mutazione in corso nel panorama legale e produttivo. Bowie, parlando con il New York Times dell’ultimo disco, ha predetto un rapido e inevitabile decesso del copyright nell’arco di una decina d’anni. Secondo il cantante inglese le nuove tecnologie stanno modificando radicalmente lo scenario musicale e addirittura porteranno a una distruzione dei concetti di paternità e proprietà intellettuale, motivo per cui musicisti e case discografiche hanno davanti ancora solo un periodo limitato per continuare a trarne profitti secondo i meccanismi consolidati. Posizioni radicali e dichiarazioni provocatorie a parte (ricordiamo che Bowie ha anche alle spalle iniziative un po’ dubbie quali i Bowie Bonds, titoli di borsa legati alle royalty del suo catalogo, poi imitati da altri), è un dato di fatto che tra gli artisti, in particolare quelli di avanguardia, sia diffusa una concezione alternativa e più flessibile del concetto di copyright.

Chi dice sì e chi dice no
Indubbiamente l’uso esteso del sampling (campionamento) e della rielaborazione di materiale altrui, alla base di molta della musica degli ultimi vent’anni, impone un ripensamento della legislazione sul diritto d’autore, con soluzioni differenziate per le produzioni con finalità propriamente “artistiche” e per quelle dal fine smaccatamente commerciale. In questo secondo caso, infatti, il discorso cambia e anche gruppi musicali radicali dediti alla pratica del plunderphonics (traducibile grosso modo come “saccheggio sonoro”) come i Negativland dicono che se da un lato dovrebbe essere possibile campionare a fini artistici, la legge dovrebbe servire a bloccare i bootleg di opere commerciali complete.

Per fare un altro esempio, il gruppo britannico The Prodigy ha dovuto pagare anni fa diverse migliaia di sterline per un campionamento dei rapper Beastie Boys, loro stessi noti per l’uso esteso e spregiudicato del campionamento. D’altro canto si è di recente arrivati anche a situazioni paradossali, come una richiesta di risarcimento per il campionamento di alcuni secondi di “silenzio” di John Cage.

Inoltre, per ogni band che, come i Dead, permette persino di collegarsi al mixer durante il concerto, ce n’è un’altra, si pensi ai Public Enemy, costretta dalla propria etichetta discografica a ritirare i brani in Mp3 dal sito, per non dire di quanti, come i Metallica, si oppongono a qualunque forma di diffusione della musica on line.

Al di là della querelle Napster, degli attacchi della Riaa o dell’ondata di piena costituita dai sistemi di condivisione di risorse, esiste un’altra realtà, fatta di concezioni alternative del copyright e di “grateful” file sharing: una realtà che qualcuno potrà bollare di eccesso di idealismo, ma comunque da non ignorare in quanto più elastica e aperta ai profondi cambiamenti in corso.

Articolo originariamente pubblicato su Mytech.it