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Gipi a Bologna per “unastoria”

Trascrizione dell’incontro del fumettista toscano con il pubblico alla Feltrinelli di Bologna, il 7 novembre 2013.

Con Gipi (Gianni Pacinotti) c’erano Emidio Clementi, scrittore e musicista, e il giornalista Alberto Sebastiani, che facevano da moderatori e hanno fornito gli spunti di discussione, seguiti poi da qualche domanda del pubblico.

Gipi a Bologna

[Cosa ti ha fatto credere che quella era la storia giusta da raccontare, che potevi sviluppare? Un’immagine primordiale, insomma…]
Gianni Pacinotti: “La cosa è buffa perché è buffo com’è cominciato il lavoro. Tu pensa, erano cinque anni che non riuscivo a fare storie a fumetti. Erano usciti altri libri ma erano sostanzialmente raccolte di cose rimesse insieme. fare un libro vero, per uno che fa fumetti è un altro tipo di esperienza, credo. Il problema è che anche se continuavo a fare illustrazioni per Repubblica (?) non riuscivo più a concepire l’idea di racconto. Non mi veniva. Tutte le volte che provo a mettere in pagina qualcosa mi ritrovo a farmi il verso, facevo il verso a meccaniche di “La mia vita disegnata male” che hanno funzionato, ecc. ecc.
Sicché un anno, due anni, tre anni, quattro anni, alla fine ho detto ‘ok, basta: finché è andata ho fatto quel lavoro lì per un po’ […].’ Poi un giorno è successa questa cosa stranissima. Avevo sicuramente litigato su Facebook. [Risate] No, no, no, non ridete. È vero. È sicuramente perché so qual è la prima frase che ho scritto.
La casa in cui abitavo prima aveva il tavolino da disegno e dall’altra parte c’era il computer. Io di solito entravo lì pensando ‘Ora mi metto a disegnare’ e poi mi mettevo a giocare a World of Warcraft. Proprio non ce la facevo a mettere il culo sulla sedia giusta. Perché poi penso che disegnare è anche una cosa […] come un qualcosa di postura, cioé il corpo deve desiderare di essere in quella forma.
Quel giorno […] ho sicuramente fatto una discussione, sono tornato sù e il culo è andato sulla sedia giusta. Ma veramente solo il culo. Non la testa. Mi son ritrovato lì e ho scritto questa frasettina che era “Dammi risposte complesse”, perché ero ossessionato da quest’idea delle risposte semplici, che secondo me non funzionano con le questioni complesse. E poi ho detto ‘Ma mi fai provare a farci un disegnino accanto?’ e ho fatto questa stazione di servizio, e quella è diventata la prima vignettina del libro. Poi ho fatto un altro disegno accanto. Non è venuto [bene], allora ho ritagliato il primo disegnetto e l’ho messo via. Ho preso il foglio e ho fatto un altro disegnino. Ho fatto le prime due o tre pagine tutte così, tutte a frammenti, perché non riuscivo a gestire una pagina intera, ma solo con un desiderio originale ed erotico di stare con il culo sulla sedia e avere la messa a fuoco a trenta centimetri e la mano in quella posizione e l’oggetto che è il pennello o il pennarello in mano, che è esattamente la cosa che ho sempre fatto da quando ero ragazzino. Cioè che ti metti a tavola e stai lì e ti piace stare lì, indipendentemente da cosa fai, indipendentemente dal fatto se sarà una storia, se sarà un libro, se sarà pubblicato,s e ci saranno dei lettori. E quando mi sono accorto che […] era tornato quel desiderio erotico di essere in quella forma, l’ho solo lasciato andare, non mi sono chiesto nulla perché mi sono detto che se ci metto il cervello di mezzo mi riblocco sicuro.
Sapevo che qualcosa dentro di me aveva voglia di accostare un’immagine a un’altra immagine e poi di metterci le mani […] una certa fase. Ho avuto fiducia […] ho detto ‘Oh, se il mio corpo vuole stare qui, se le mie mani vogliono fare questi gesti magari c’è un motivo che io ora non conosco e che forse scopro se non interrompo questo flusso’. Non l’ho interrotto e sono andato avanti. Ma veramente poi io sono arrivato praticamente in fondo alla storia senza avere idea di cosa stessi facendo, [cosa] che per me tralatro era tabù. Quando ho lavorato agli altri libri, mi fermavo sempre a un certo punto e mi dicevo ‘Ma di cosa cazzo stai parlando?’ e se non riuscivo a darmi una risposta concisa e precisissima io smettevo, capito? Quando ho fatto “Appunti per una storia di guerra” ho fatto le prime dieci, dodici pagine così, con lo stesso desiderio di cui parlavo prima, poi però mi sono fermato e hi detto ‘Ma cos’è sta roba? Di che stai parlando? Ti stai ad atteggiare? Sei preso da una vanità di forme o c’hai una storia da raccontare?’. Finché non avevo quella risposta non andavo avanti.
Qui [in “unastoria”] avevo talmente paura di bloccarmi che non mi sono mai fatto la domanda, e sono arrivato praticamente fino in fondo. […] Io credo proprio nella postura. Credo nella scelta di…
Io lavoro così: mi sveglio la mattina, mangio il caffé con i biscotti del Mulino Bianco, di solito recito ad alta voce la poesiola che c’è sopra, prendendola per il culo [risate] e poi, come prima cosa della giornata, pri-ma, non devo andare sul Post a legger gli articoli, non devo guardare i giornali, non devo vedere cosa hanno scritto i miei amici su Facebook, non devo incazzarmi con nulla, devo – come prima cosa – andare al tavolo da disegno e iniziare a disegnare. Se io faccio quello allora è come se la giornata decidesse che si sta lì. E di solito, se io resisto a questa tentazione di perdermi in altri canali poi la cosa funziona. E io non la chiamo ispirazione perché per me l’ispirazione mi dà un po’ l’idea del fatto che tu a un certo punto sia illuminato. Invece per me l’idea di ispirazione è proprio che io non mi devo sentire che sono io a fare le cose. È buffa sta cosa ma io ad esempio se faccio una cosa che mi piace, poi mi piace leggerla ad alta voce, di solito alla mia fidanzata, poverina, però anche ai miei amici gli faccio una testa così, perché quando la leggo, se la dico come è avvenuta non mi sembra proprio di averci nessun merito. Mi sembra di funzionare solo quando io mi sono messo nella postura giusta con la penna giusta, il foglio giusto e poi però ‘ciao’. Sì, lo so, sembra un po’ un discorso da mistico del Bar Sport [risate] però ormai sono tant’anni che faccio questo mestiere e un po’ di processi l’ho individuati. Davvero, è come se tutte le volte che levo l’opinione, levo l’idea, allora funziona. In questo libro qui [“unastoria”] poi l’ho fatto più di ogni altra volta e anche la trama stessa è talmente evanescente e non c’era bisogno che io stessi attento… anzi, se c’era un’intenzione era quella di non avere un plot. Ho proprio una sorta di astio verso le storie. Difatti l’ho chiamata “unastoria” a spregio.”

[sul disegno e sugli elementi visuali di “unastoria”]
Gipi: “Credo che a un certo punto, dalla metà in poi, credo, un pochino più di fiducia l’ho acquisita […] il libro si rafforza, anche perché poi il disegno è una roba fisica. Non è che puoi star fermo cinque anni e poi ti metti a disegnare e lavori come cinque anni prima. Ero completamente arrugginito per cui, mese dopo mese, secondo me disegnavo sempre meglio andando avanti nelle tavole. Però è buffo: tutte le cose che ci vedo [in “unastoria”] di scelte le vedo ora. Per esempio in un’intervista […] m’ha fatto notare che c’è questa pagina tutta bianca con un questo omino che cade che è molto simile a una cosa che ho fatto in “La mia vita disegnata male” e io, riflettendo sul perché ho fatto quel disegno lì mi sono accorto che era una specie di addio.”
“La mia vita disegnata male” era stata per me un cambio di esistenza perché era un libro che mi aveva fatto molto bene, m’aveva fatto guadagnare più soldi di quanti ne avessi visti in vita mia. Ero andato in TV e uscito da quelle giornate in televisione mi trovavano il posto libero nei ristoranti, le ragazze mi si inginocchiavano davanti… cioè, io sono un attimo brutto per cui fa il doppio dell’effetto ‘sta cosa.
E io credo che in seguito a questa ventata di vanità che è arrivata, indubbiamente, per quanto io fossi convinto di fare argine, non credo di esserci riuscito. Dopo quella cosa lì io non riuscivo più a fare niente: ha coinciso con il fatto che non riuscissi a fare più dei fumetti, quindi nella mia testolina ho fatto 2 + 2. Ho fatto il conto vanità contro espressione artistica… vanità vince sette a zero. Espressione artistica: ciao. Questa cosa mi ha causato dei danni. Qual è il problema? [Che] Quando hai fatto un libro che è andato molto bene… quando vai a a farne un altro… intendiamoci, pure io devo campare, no? E poi fai un libro dopo cinque anni e tutti quanti ti dicono ‘che schifo che fa’, non è una bella cosa. Oppure ti scrivono ‘Sapevo che saresti stato finito e infatti sei finito!” [risate] È dura. Quindi la paura ce l’hai, per quanto io faccia l’artista che cerca di non essere al tavolo di disegno, e l’abbandono, ecc. ecc. Per cui lo spettro [di] “La mia vita disegnata male” era sempre lì e mi sono accorto, ragionandoci dopo, che aver fatto questa figurina così timida [?] che poi e ne va, sparisce, non torna più era veramente un taglio. E l’altro taglio per me è stata la rinuncia all’umorismo. L’umorismo è lo scudo dei fragili, no? È una finta. Almeno per me. […] in difficoltà, come capiterà in questo incontro, ed è già capitato altre volte, io faccio le battute. È una protezione. qui [in “unastoria”] non ho messo nemmeno quella, però per me è stata una cosa che ora mi dico abbastanza coraggiosa. Insomma [mi dico]: ‘Ti conoscono perché sai alternare queste robe che ti faccio ridere e ti faccio piangere, ti faccio ridere e ti faccio piangere… poi ti faccio piangere e basta, magari poi ci restano anche’. Però avevo bisogno di rompere con le cose passate… probabimente.”

Gipi a Bologna

[sugli scarabocchi al posto dei baloon dei soldati tedeschi]
“Mi piace molto scrivere in tedesco” [risate]

[sulla scelta di non mettere testo nei baloon]
Gipi: “Perché sono, probabilmente, al di là dell’atteggiamento artistoide ‘gna gna gna’, sono un gran paraculo e mi sono reso conto che se avessi a un certo punto fatto tutta una apertura di capitolo completamente muta, una cosa dove proprio togli il volume al racconto, però quello che racconti è il massimo del fragore, cioé un attacco a tappeto durante la Prima Guerra Mondiale, l’effetto sarebbe stato molto forte. Io volevo quello. Mi piace l’idea delle cose irraccontabili. Per uno scemotto che passa le giornate su Facebook del 2013, italiano, che manco […], come fai a raccontare della guerra? Con quale spudoratezza affronti una cosa del genere? Allora io dico che fa una scena di particolare violenza, invasiva nella storia, però c’è poi questo conflitto di pudore per cui uno dice “voglio un effetto deflagrante, ma te lo faccio invece che inventando cose di cui non so nulla tutti i suoi lasciandoli immaginare a te”.
All’inizio dei giochi di computer c’era questa cosa che si chiamava avventure testuali dove tu scrivevi al computer e dicevi “vai a nord” e il computer ti diceva “entri in una grotta con le stalattiti”. E tu dicevi “Prendi una stalattite”. “Non ho capito”. [risate] “Vai a est” “Ok” “Entri in un corridoio…” E incredibilmente, per quanto la grafica di questi giochi fosse uno schermo nero con dei caratteri bianchi, nel tuo cervello si costruivano grabndi immagini. Mi ricordo la casa che produceva queste avventure aveva uno slogan che era “Utilizziamo la periferica grafica più evoluta del momento: il vostro cervello”. Era molto figa questa cosa e io ho pensato: se non metto suoni, se non ti dico cosa dicono i personaggi, tu gli farai dire le cose più forti in assoluto, perché gli farai dire le cose tue. Capito? Quindi io ti lascio i baloon vuoti. Le frasi sono quelle che tu proietti, e quindi saranno – probabilmente – le più profonde che puoi mettere. O immagino. Ho fatto un esperimento.”

[sulla collaborazione tra Gipi ed Emidio Clementi per il video di “La cena” dei Massimo Volume]
Emidio Clementi: “Noi non c’eravamo mai incontrati di persona e il tutto si è svolto attraverso posta [?]. Pur non essendoci incontrati io conosco, non benissimo, ma so qual è la voce poetica di Gianni. Mi piace molto, piace a tutti noi [Massimo Volume] e […] ci piaceva l’idea che qualcosa di nostro potesse andare a incontrarsi e scontrarsi con il linguaggio di un’altra voce poetica ed effettivamente è nato qualcosa che è un ibrido ma è qualcosa di più e di diverso dalla menti che l’hanno creato. Noi siamo molto soddisfatti. È stato molto bello. È la prima volta che ci succede di lavorare ‘artisticamente’, anche se è una parola orribile, su un video musica così.”
Gipi: “Io non ho mai fatto un video […] e penso di essere anche stato antipatico e non so perché non sono stato mandato a quel paese perché ho fatto cosa mi pareva e alla fine gli ho fatto soltanto dei bozzetti… ho proprio fatto un’opera di forte prepotenza sul suo lavoro, che invece è molto delicato e molto sottile. Io ho preso la sua canzone e ci sono montato sopra a cavalcioni e ho deciso che la madre di cui parlava nel suo testo era la mia e ho trasferito nel video…”
Clementi: “Somiglia alla mia!” [risate]
Gipi: “Tutte le mamme del mondo, alla fine, sono esseri con la testa d’insetto! [risate] In fondo, in fondo…
Ero super entusiasta mentre lavoravo, però dopo mi sono preso tutte le remore pensando ‘Sono stato davvero antipatico’. Quando poi ho saputo che non vi era dispiaciuto il lavoro, mi ha fatto piacere. Ho lavorato al video [come] ho lavorato al libro. D’istinto. Mi sono messo ad ascoltare il pezzo a ripetizione. Poi a un certo punto ho visto questo padre e figlio con queste forme… ho iniziato a disegnare e poi ho schiavizzato i miei amici di sempre…”
Clementi: “Un giorno devi farceli conoscere.”
Gipi: “Uno è qui che è Andrea Vignali (?) ed è dietro a ogni cosa che ho fatto in vita mia da dieci anni a questa parte. Ma lui è timido ed è nascosto, però è da qualche parte. Tutte le animazioni fatte… pure l’esistenza stessa… m’ha ripreso per un orecchio centinaia di volte. […]
Gli altri sono tutte persone con cui ho messo sù una specie di mafia perché nel momento in cui io ero più ricco dei miei amichetti – che sono praticamente tutti disoccupati – io prestavo soldi sapendo che non li avrei mai più riavuti indietro. Così […] succede che tu dici ‘Dai ciccio, però tu m’aiuti a fa’ sta roba’ E lui ‘Diobono sì! Ma che scherzi?’ [risate] […] c’erano queste persone che lavoravano per me. Poi in realtà i soldi che c’avete dato [per il video] sono stati divisi… cioè saranno divisi in parti sostanzialmente uguali e ciao! Però è che loro sono proprio costretti. [risate] La mafia è iniziata uguale! [risate] […]”
Clementi: “Nel libro torna spesso l’albero. E torna la stazione di servizio. Mi hai ricordato che un film di Herzog (?) in cui ci sono gli aborigeni che vanno a sognare nelle corsie di un supermercato… […] Volevo sapere se ci sono dei luoghi che tu senti cari. […] Luoghi in cui torni e che magari ti servono anche come cariche di energia.”
Gipi: “Sì. Faccio un esempio scemo velocissimo. Ho abitato tre anni e mezzo a Parigi. Città bellissima […]. Non ho mai, mai, mai, mai, mai, mai disegnato uno scorcio di Parigi. Mai. Niente. Sono tornato in Italia, in provincia di Pisa, un posto di merda (?), dove stavo io. Tempo un giorno e già vedevo il cielo con gli occhi di chi lo guarda per raccontarlo. […] La cosa che è ridicola è che a parte che doveva essere lo stesso cielo che vedevo quando ero piccolo poi non aveva niente di particolare. È solo il cielo sopra il Carrefour di La Fontina, si chiama così… Non sa di niente. Però io tutte le volte che lo vedo mi s’apre il cuore. Poi mi sono trasferito a vivere in affitto in una casa in affitto bellissima a pochissimi soldi. Una cosa bella di stare nella provincia della provincia è quella, trovi case belle a pochi soldi, e là sono davvero in mezzo alla magnificenza della natura.
Quindi sicuramente ho questa roba che rimango sconfitto tutte le volte che mi metto a confronto con… anche con un albero, in questo caso. A confronto nel senso non da contemplatore ma da artista. Lo guardo, gli dico ‘Ciao, albero, ti rifaccio’ e lui dice ‘Sì, col cazzo [risate] perché non raggiungerai mai la grazia, l’eleganza, la potenza e il mistero che io ho in uno dei miei rametti’. Quella è la mia idea di natura. Qualcosa di assolutamente imparagonabile a qello che c’è dentro di me. Questa cosa è buffa perché la scoperta di questa diferenza di valore… è stata quella che m’ha fatto diventare disegnatore. Cioè, un disegnatore decente. O lo spero. Perché prima ero un disegnatore scadente. […] Quando ero a Bologna avevo quest’idea che dentro di me ci fossero le cose. Che bastasse guardarmi dentro per avere l’ispirazione. E allora cosa facevo? Se dovevo disegnare un bosco mi mettevo al tavolino e facevo un bosco. O facevo gli alberi, i rami, le foglie. Poi […] per un caso, o per il desiderio forse di avere qualcosa di più, mi sono messo a fare disegno dal vero, come i pittori di un tempo. Quelli che impazzivano. Che andavano con i cavalletti e i colori nei campi. L’ho fatto per quasi tre anni. Sia inverno che estate: passavo col motorino nel paese in cui stavo con i secchi, con le robe e mi urlavano ‘Sceeemooo’ [risate]. Perché succedeva che mi guardavo dentro e faceva cagare. Niente, non mi veniva nulla. Ma nel frattempo cominciavo a vedere le forme per com’erano e non per come io le pensavo. Da qui viene il mio discorso dell’annullamento al tavolo. Del sapere che la mia vera abilità doveva diventare il voltare gli occhi: da uno sguardo all’interno allo sguardo all’esterno. Ma uno sguardo all’esterno che mi escludesse, che escludesse il mio gusto e la mia opinione, ma che sapesse vedere le curve e le forme come erano […]. Questa cosa mi ha portato a sentirmi un microbo. Poi mi chiedono ‘Ma Gipi, perché fai sempre sti paesaggioni grandi con gli omini piccini piccini?’ Perché quello mi son sempre sentito. La cosa bella di un disegnatore è che fa tanta di questa esperienza che ti cambia anche lo sguardo interiore nel senso che quando vai a tirare fuori le cose di fantasia il tuo bagaglio di forme si è arricchito moltissimo, no? Solo che vivi in una società che ti dice il contrario. Ti dice ‘Io! Io! Io!’ Ti dice ‘Sei te! Sei te! Sei te che sei vero!’.
Io penso che non si debba esistere per far qualcosa di buono in campo artistico. Devi diventare un affare che riesce a stare in piedi e c’ha due buchi dove entra la luce e che se hai fortuna quella cosa lì la riporti sulla carta. Che sia musica, che sia disegno… […] “

Clementi: “Si può diventare artisti avendo un’immaginazione difettosa?”
Gipi: “Io non credo di avere una grande (?) immaginazione. […] Mi ricordo l’effetto che mi faceva quando ero ragazzo sentire uno di cinquant’anni che diceva ‘Io sono un artista’ e cercavo una mazza da baseball per dargliela in testa. [risate] A volte devi precisare cosa vuol dire essere un artista. Per me un artista è trovarsi una gamba più corta dell’altra. […] Per cui la mia vita è determinata dal fatto che ho una gamba più corta dell’altra. Una gobba. […] Io lo dico così, non come Proust (?) ma come una menomazione che ti costringe a una certa attitudine nei confronti dell’esistenza. Tu sai che non correrai velocemente. […]
Il processo è quello per diventare una persona un po’ meno infelice. È lo stesso. Cambiare direzione all’angolo di ripresa dei tuoi occhi. Invece che guardare indietro, guardare fuori. Basta. Quello vuol dire per me averci una gamba più corta dell’altra. C’è un vizio, un vizio per cui riesci a recepire la bellezza.. fuori di te. Quindi ti levi peso, ti levi importanza. E forse puoi vivere un pochino più serenamente. […] Quando andavo a fare disegno dal vero c’erano dei momenti in cui ero… in comunione col mondo. Anche per trenta secondi, ma vale la pena. E poi da lì, se sei uno che vuole fare questo mestiere, non hai tanto biogno di sviluppare una tua immaginazione quanto una tua capacità di vedere. Quanto te aspirante (?), [sei] di fronte all’albero, tu forse puoi vedere, più grazia, più curve, più ricchezza, più complessità, di quanta ne vedo io. È una questione di disposizione e di abbandono e di allenamento, credo.

Gipi a Bologna

[Quand’è che ti dici “Ok, ho trovato il disegno?”]
“Per me è difficile dirlo perché succede che dico: ‘Cavolo, questo è buono, questo lo metto’. E il giorno dopo dico no […] e quindi ne devi fare un altro, sostanzialmente. […] Poi anch’io prendo […] storie filosofiche da due lire… ma qui stiamo parlando di un libro a fumetti. In un libro a fumetti non è che uno cerca l’illuminazione. Uno cerca che il racconto, i disegni siano funzionali e che stiano bene insieme. Per cui per me, all’interno di un libro a fumetti, il successo del lavoro è quando testo e disegni diventano una cosa sola e ti portano verso la pagina dopo, in sostanza senza intoppi. Se poi riescono anche a generarti delle emozioni… bene, tanto meglio. Però ad esempio io sono contento quando lavoro a dei libri così, difficilmente sono presente sul singolo disegno. Mentre sono qui, sono già con la testa su… non vedo l’ora di aver finito perché la cosa che davvero mi dà il godimento, quello sexy, è il ritmo. La caduta. Il passaggio da una scena all’altra che genera un buon ritmo, una buona musica, quindi poi anche una pagina bianca che ti fa da pausa. È una cosa simile al suonare uno strumento. […]
[Richiesta di leggere un punto di ‘unastoria’]
Questo momento in cui il protagonista della storia la mena alla figlia con una delle sue imbecillagini che gli vanno a battere in testa in modo ossessivo e dice ‘In pratica, secondo me, la forma che abbiamo, il nostro viso, con gli zigomi, le guance, le fossette, il mento, la bocca, le labbra. Tutto questo, queste forme […] sono stet definite nei secoli dei secoli dallo scorrere delle lacrime. Però non pensare che mi riferisca solo alle lacrime di dolore. Certo, anche quelle per l’amor di Dio, ma pensa anche a quelle di gioia per l’emozione’. Questo è un momento in cui lo scemo della storia comincia a blaterare con la figlia che le forme che abbiamo sono state sostanzialmente scavate dalle lacrime, insomma come fa l’acqua del torrente sulla roccia…
[Come ti è venuta quest’idea?]
“Intanto dal non essere eccessivamente pacioccone. [risate] Per cui tutte le volte che guardo questa specie di teschio che ho montato in cima alla colonna vertebrale, non è che io proprio gioisca. In più ero sicuramente stato a casa di mia madre che m’avrà fatto una menata che c’ho i capelli troppo corti, che coi capelli più lunghi sto meglio… perché mia madre da piccino mi faceva il caschetto come alle bimbe [risate] per far vedere meno le orecchie… mi portava da Franco il parrucchiere e mi fonava a punto con questo caschetto così… [risate] Il risultato è che siccome ero bellino da piccino, poi quando mi portava per negozi sembravo mia sorella Marisa. Avevo sta menata che non solo avevo le orecchie a sventola ma sembravo una bimba […]. E a tutt’oggi io ho 50 anni e mia madre 92, a tutt’oggi mi rompe ancora i coglioni sul fatto che [voce in falsetto] ‘Coi capelli più lunghi sulle orecchie staresti meglio!’. E poi non vuole che io abbia la barba. Mi ricordo che un giorno, tornato a casa, scrissi sta cosa che la barba nasconde i segni del viso, che uno la tiene perché… […] E da lì è venuto, dal fatto che mi guardo, non mi piaccio, sono scavato e dico ‘Perché sono scavato così?’. Quando ho fatto il libro, per giunta durante tutto l’arco di lavorazione ho avuto un sacco di problemi di salute. Avevo sempre paura di morire, per cui entravo e uscivo dall’ospedale, ho fatto delle TAC al cervello per vedere se avevo un tumore. Non me ne sono fatto mancare una! Per cui lavoravo pensando sempre: ‘Ora muoio, ora muoio’ [risate] L’umore non era proprio alle stelle. Per cui, purtroppo quando sei in quella condizione lì […] mi chiedevo perché avevo quelle forme. Poi in realtà [quello nel fumetto] non sono io, perché sono un paraculo. Quella cosa lì la dice lui [il protagonista] ma poi la figlia, quando monta in macchina con il fidanzato, dice ‘Che palle, mio padre… queste cazzate, la cosa che scava la faccia’. Io sono così. Sono sempre spaccato in due tra la parte di me che prende le cose con serietà, e magari anche con verve poetica e quell’altra [parte] che fa […] Sono spaccato in due. […] Ho anche il certificato di psichiatria dell’Ospedale di Pisa.”

[Hanno dedicato una via a Pazienza, però sopra hanno scritto ‘Andrea Pazienza, artista’, non fumettista. Tu come la vedi?]
Io la vedo che era un artista che faceva fumetti. Non c’era uno che fosse fumettista più di lui. […] La vedo come una menata. […] Stamane ho fatto un’intervista alla radio… ‘Gipi, come possiamo dire, no? Autore di Graphic Novel…’ ‘Ma io faccio i fumetti!’ [risate] La cosa che per me è ancora più buffa è che m’hanno sempre messo idealmente in questa squadra di quelli che si vergognano di andare a dire che fanno fumetti. Io faccio i fumetti. Fine. Poi è chiaro che il termine Graphic Novel è servito per posizionamenti di mercato, ma non è il mio mestiere, quello. Io ho anche fatto il cinema, ok? A un buon livello. Non nel senso del risultato ma di scrittura. Quanto mi è mancata in quei giorni la libertà del fumetto! Questa è una cosa delle qualche non ci si rende conto. A me dispiace molto se c’è qualcuno ce crede che ci sia un essere invisibile che ci ama e che se facciamo qualcosa di male ci manda a bruciare per l’eternità all’inferno, ma in questo libro, ad esempio, c’è una be-stem-mia. Io son toscano, per me le bestemmie sono… è il rullante (?). Non ci posso fare nulla. Non hanno niente a che fare con la mia eventuale fede. Nel cinema io non ho potuto far dire a un mio personaggio ‘Coca-Cola’. [risate] Ve lo giuro. C’è uno scemo che a un certo punto ha l’idea ‘Se faccio, quando lo battezzo lo chiamo Coca-Cola di nome, no? Coca-Cola Pacinotti. Poi quello quando è a scuola, all’appello… Coca-Cola? Presente! Poi chiamo al Signor Coca-Cola e gli dico ‘Signor Coca-Cola, il mio figliolo le fa pubblicità. Me lo dà un vitalizio?’ [risate] La scena era questa. Non l’ho potuta fare. Coca-Cola non si poteva dire. Io però potevo essere nato nella società dei consumi, esser diventato un idiota totale grazie alla società dei consumi, aver avuto il mio gusto estetico macellato dalla pubblicità grazie alla società dei consumi, i coglioni esplosi ogni istante della mia vita da messaggi idioti, da cartelloni pubblicitari, da figuri, tutto, ovunque, ma quando andavo a raccontare la società mia non potevo dire ‘Coca-Cola’. Ti giuro che schiumavo di rabbia. Impazzivo. Non potevo nemmeno inquadrare il logo delle aziende, quelli che mi si piantano negli occhi. La tipa col culo di fuori così… non la potevo filmare. Però lei poteva starmi col culo… [risate]. Nel fumetto sei libero. E non sei solo libero su questo piano. C’è un altro piano che è molto più figo e che per me è proprio l’idea stessa di libertà contemporanea. Non sei legato all’economia. Nel cinema ogni pensiero si traduce in spesa. Ogni scelta di gusto si traduce in spesa. Voglio dare un’idea di movimento? Mi serve un carrello di cinque metri da qui a là. Lo pago in materiale e noleggio, in troupe e tempo. Nel fumetto sei te e la tua voglia. Voglio New York in fiamme vista dall’alto? Basta che abbia la volontà di spaccarmi la schiena abbastanza a lungo da farlo. Io se ci penso ho fatto delle robe pazzesche quando lavoravo ancora su robe di satira. Ho messo a pecorina ogni tipo di ministro… ho fatto della roba che non avrei mai potuto fare nel cinema. Per quello mi mancava così tanto riuscire a lavorare nel fumetto. In più l’altra cosa bella è che è un mezzo dolce. Tu prendi il libro e decidi quando te lo guardi, come e quanto durerà la lettura, con che tipo di luce, se ci sarà una musica, se sarai in compagnia, se sarai da solo, quanto starai su una pagina, se tornare indietro. E questa cosa qui, questa sorta di possibilità di comunione, di lettura, fa sì che io ami così tanto questo mezzo, anche se negli anni in cui non riuscivo più a lavorarci pareva che mi avesse lasciato la ragazza…”