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“Alcuni diritti riservati”: Creative Commons sbarca in Italia

Le licenze CC adattate al nostro paese. Per muoversi fra le maglie del copyright e creare beni “pubblici”.

di Nicola Battista e Nicola D’Agostino

Creative_commons

Rivoluzione on-line”, “libera il copyright” e “condividi la conoscenza: nuovi Commons, nuovi diritti”: sono le parole d’ordine dell’iniziativa Creative Commons che finalmente è arrivata anche in Italia.

Creative Commons per l’Italia. Il battesimo si è tenuto la scorsa settimana a Torino (16 dicembre) e a Milano (18 dicembre): due incontri (ccit2004) per presentare il lavoro di adattamento all’ordinamento giuridico italiano delle licenze di Creative Commons.

Lo staff Cc di San Francisco e Berlino ha lavorato, per arrivare a questo adattamento, a stretto contatto con il professor Marco Ricolfi del Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Torino. Ricolfi è un ricercatore che si occupa degli argomenti inerenti le leggi relative alla proprietà intellettuale e tramite la sua attività ha costituito un importante rete di colleghi e volontari italiani che hanno dato il loro importante contributo al progetto Creative Commons.

Fondamentale dal punto di vista tecnico-organizzativo è anche la collaborazione dell’Istituto di Elettronica e di Ingegneria dell’Informazione e delle Telecomunicazioni (IEIIT-CNR) che già nel 2003 aveva sottoscritto un “memorandum of understanding” con Creative Commons, divenendo “Affiliate Institutions” italiana e che si è assunta l’incarico di tradurre e adattare i contratti delle licenze dall’originario inglese.

Creative Commons è un’iniziativa no-profit originata negli Stati Uniti per promuovere l’utilizzo creativo dei lavori intellettuali e artistici, sia di proprietà che di pubblico dominio. Creative Commons compie già la sua opera di sensibilizzazione e offre gratuitamente strumenti legali specifici in tredici diversi paesi tra cui (in Europa) Austria, Belgio, Olanda, Finlandia, Francia, Germania e Spagna e dopo l’Italia sarà la volta del Regno Unito.

Per Creative Commons l’espansione a livello mondiale del progetto “è una delle priorità principali […] quest’anno” e nell’esordio italiano notevole è anche l’impegno a livello promozionale che viene dalle adesioni e (in alcuni casi) dagli interventi di noti politici, intellettuali, esperti e artisti tra cui Stefano Rodotà, Fiorello Cortiana, Claudio Prado, Franco Carlini, Enzo Gentile, Mauro Pagani e Guido Chiesa.

Il 2001 è l’anno di nascita di Creative Commons negli Stati Uniti, ad opera di esperti della materia come James Boyle, Michael Carroll, Eric Saltzman, Hal Abelson e Lawrence Lessig l’ormai notissimo autore e professore della Stanford Law School che è apparso anche all’incontro italiano (il suo intervento come tutto il resto della conferenza svoltasi a Torino è, recuperabile in video dal sito di Radio Radicale).

Sonny Bono.

Da non dimenticare tra i fondatori anche quell’Eric Eldred che oltre ad essere l’animatore di Eldritch Press, sito dedicato al Pubblico Dominio, è stato anche il protagonista dell’azione legale Eldred vs. Aschcroft, volta ad eliminare l’estensione di copyright prodotta dal famigerato Sonny Bono (Copyright Term Extension Act), nonchè di altre iniziative volte a rafforzare il concetto di pubblico dominio e a riformare la legislazione americana in materia.

Un anno dopo la fondazione, nel 2002, il primo risultato concreto: la presentazione delle prime licenze disponibili per il pubblico; in pratica, seguendo il solco tracciato nel campo del software dalla mitica GNU GPL (la “General Public License” della Free Software Foundation) è stata realizzata una serie di licenze adatte a testi, immagini, programmi per computer, ma anche video e musica.

Beni pubblici.

“We use private rights to create public goods”, si può leggere nel sito statunitense: poche efficaci parole per definire un intero programma.
Dopotutto, perché battersi per cambiare le leggi sul copyright quando nell’ambito delle stesse sono previste per l’autore di un’opera facoltà quali quella di distribuire l’opera nei modi e nelle forme preferite e addirittura nel “pubblico dominio”?

Si potrebbe dire che Creative Commons cerca di sostituire o quantomeno di affiancare al classico modello “All rights reserved” (il tipico “Tutti i diritti riservati” che normalmente troviamo stampato su libri, cd e via dicendo) la filosofia del “Some rights reserved”. Così, solo “alcuni” diritti – per esempio lo sfruttamento commerciale di un brano musicale all’interno di uno spot pubblicitario – restano riservati al titolare dell’opera, mentre è libera ad esempio la distribuzione della stessa senza fini di lucro (ad esempio tramite sistemi peer-to-peer o siti web) e in molti casi la modifica (manipolazioni grafiche, remix di brani musicali, adattamenti di testi letterari o di codici software e così via).

Licenza su misura.

L’evento-convegno di Torino e Milano è servito a presentare quindi il lancio delle licenze tradotte e adattate per l’utente italiano.
Tra l’altro è intelligente il sistema di scelta tra le varie licenze: avete realizzato qualcosa (un software, un brano musicale ecc.) e volete pubblicarlo ma non siete ferratissimi in tema di diritto d’autore?
Il sito Cc nella sezione “Scegli una licenza” pone una serie di domande all’autore e permette così di arrivare con pochi clic a una licenza “ad hoc” per la propria creazione. C’è da dire che al momento la cosa può creare un po’ di confusione per il fatto che in una stessa pagina parte del testo è in inglese e parte in italiano: ovviamente Cc italiano è ancora “work in progress”.

In ogni caso, si può andare dall’estremo del “Pubblico Dominio” a licenze gradualmente più restrittive, che per esempio consentono o non consentono utilizzi commerciali, che incoraggiano le modifiche ma obbligano alla condivisione o che invece non consentono modifiche dell’opera.

Anche utilizzi commerciali Cc.

Già, perché c’è da dire che licenze come questa non escludono affatto utilizzi commerciali anche di ampio respiro: esattamente come nel mondo del software open source sono possibili prodotti e servizi commerciali – si pensi ad aziende come Ibm o Novell e al sostegno dato da queste ed altre multinazionali a diversi progetti Linux – salvaguardando allo stesso tempo il codice aperto, la possibilità di apportare modifiche e la facoltà o addirittura l’obbligo di ridistribuire il codice modificato, così in ambito CC si sono visti grandi nomi ad esempio del mondo della musica implementare alcune delle nuove licenze.

Ciò non significa certo che ad esempio Gilberto Gil o i Beastie Boys (tanto per citare un paio di nomi inclusi nella , compilation distribuita di recente in formato digitale e come allegato a “Wired”) abbiano deciso d’un tratto di rinunciare ai loro copyright: hanno invece deciso di riservarsi “alcuni diritti” e di consentire invece, ad esempio, di distribuire il materiale in siti web e reti peer-to-peer senza fini di lucro, o di campionare i brani stessi, liberando così molti studenti amanti degli mp3 e dei remix amatoriali dall’incubo di una azione legale tutt’altro che remota, visto quanto accaduto negli ultimi anni soprattutto in paesi come gli Stati Uniti.

Manipolate gente!

Resta da dire che le licenze “Sampling” non si riferiscono solo al campionamento audio per le quali erano inizialmente pensate (la nascita di questo tipo di licenze è stata suggerita e fortemente sostenuta da artisti come Vicki Bennett alias People Like Us e dai Negativland, due dei migliori nomi in fatto di “saccheggio sonoro”): infatti, è possibile applicarle anche a immagini statiche e clip video.
Altra iniziativa legata a Cc è invece il sito ccmixter.org: una community che raccoglie musica distribuita con licenze Commons e invita apertamente a usufruire delle stesse in ogni modo possibile, lanciando anche concorsi per la creazione di manipolazioni di brani preesistenti.

In conclusione, Creative Commons non è la soluzione a tutti i mali del copyright, ma di certo è una iniziativa concreta che – anche grazie alla attuale fase di “internazionalizzazione” – sarà di certo molto utile a mitigare alcuni dei problemi sorti dalla rivoluzione tecnologica di Internet e a mantenere vivo il dibattito su copyright e nuovi media.

Articolo originariamente pubblicato su Mytech.it